C. CANTÙ
STORIA DEGLI ITALIANITOMO III.


STORIA
DEGLI ITALIANI

PER

CESARE CANTÙ

EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

TOMO III.

TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1875

[1]

CAPITOLO XXXI.Il secolo d'oro della letteratura latina.

Un'altra fortuna ebbe Augusto, che al suo corrispondesseil secolo d'oro della letteratura latina, talchè ilnome di lui, non solo si associò all'immortalità diquegli scrittori, ma rimase come appellativo de' protettoridel bel sapere.

Ne' primordj, Roma s'occupò a difendersi e trionfare,non ad ingentilire gl'intelletti. Sol quando penetrònella Grecia italica, poi nella Grecia propria, conobbeuna coltura più raffinata, e la introdusse coi prigionierie coi vinti, i quali allogaronsi come maestri o clientinelle principali famiglie; e tal ne prese vaghezza chedimenticò i modi nazionali per tenersi affatto sulleorme greche. Quand'anche non fosse natura degl'Italiani,sappiamo per iscritto che il popolo nostro dilettavasigrandemente di canzoni nelle varie fasi della vita;specialmente alle vendemmie, e quando la riposta messelusingava terminate le fatiche, e alle solennità della rusticaPale i prischi agricoli, forti e contenti di poco,coi figli, colla fedele consorte e coi compagni di lavoroesilaravano l'anima e il corpo nel suono e nel ballo[1];e la gioja bacchica esultava in canti e gesticolazioni, eforse anche dialoghi, di versi regolati dall'orecchio emisurati dalla battuta del piede.

Questa fu per gran pezzo l'unica drammatica, benlontana dalla artistica che pur già grandeggiava in Sicilia,e che richiede un'azione, un intreccio, e caratteri[2]e affetti. Abbiamo notizia di recite che si facevano insiffatti versi, chiamati saturnini dal favoloso Saturno,o fescennini da Fescennia, città dove molto erano usatialle Sature, mescolanza di musica, recita e danza. Inconditie mal composti, smentiscono però Orazio quandodi letteratura romana non trova lampo se non dopol'occupazione della Grecia[2]; più lo smentisce la storia.Tito Livio, in un passo d'oro[3], fa che i Romani desumanoanche i giuochi scenici dagli Etruschi, dicendoche nell'epidemia del 390 di Roma, la collera celesteserbandosi inesorabile alle supplicazioni consuete, siintrodussero (cosa nuova al popolo bellicoso, avvezzosoltanto agli spettacoli del circo) rappresentazioni sceniche,fatte da commedianti etruschi che nella costorolingua chiamavansi istrioni, i quali ballavano artifiziosamentea suon di flauto e gestendo senza parole: igarzoni romani gl'imitarono, aggiungendo versi rozzima lepidi: in appresso s'introdussero buoni istrioni chene recitarono di studiati, e rappresentarono satire, lecui parole convenivano al suono del flauto e al movimento.Livio Andronico (segue egli), più d'un secolodopo, osò far meglio, e comporre drammi con unitàd'azione; e avendo perduto la voce, ottenne di collocaredavanti all'attore un giovane che cantava i suoi versi,mentr'esso faceva i gesti, viepiù espressivi pe

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